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Screening per il tumore polmonare

Il tumore del polmone è la malattia neoplastica più frequentemente diagnosticata in tutto il mondo e la principale causa di mortalità per cancro, con oltre 1,6 milioni di decessi all’anno.
Nel 2020, in Italia sono stati stimati circa 41.000 nuovi casi di tumore del polmone e rappresenta la seconda neoplasia più frequente negli uomini (14%) e la terza nelle donne (7%).
L’approccio terapeutico per questo tipo di patologia cambia a seconda delle condizioni dei pazienti e dello stadio, delle caratteristiche molecolari e dal tipo istologico del tumore.
Tra le modalità organizzative impiegate nell’ambito dell’assistenza rivolta ai pazienti con patologie oncologiche giocano un ruolo fondamentale il “team multidisciplinari” (MDT) in cui diversi specialisti (oncologo medico, chirurgo, radioterapista, radiologo, medico nucleare, anatomo-patologo etc…) lavorano insieme, condividendo le informazioni cliniche dei pazienti presi in carico. Tale modalità ha lo scopo di migliorare l’outcome clinico e di soddisfazione dei pazienti e le performance sanitarie riducendo la variabilità nella pratica clinica.
Molteplici studi, infatti, hanno dimostrato un impatto positivo dei gruppi multidisciplinari nella gestione dei pazienti: in particolare, è stato evidenziato un miglioramento dell’appropriatezza diagnostico-terapeutica, della sopravvivenza globale e qualità di vita.
Nel tumore del polmone in stadio precoce (stadi I e II), la chirurgia a titolo radicale è il trattamento di scelta in grado di ottenere una guarigione completa o di migliorare significativamente la prognosi dei pazienti. Una resezione non radicale si associa ad una sopravvivenza sovrapponibile a quella dei pazienti non operati.
L’operabilità della malattia si attiene a criteri di operabilità biologica (prospettiva di radicalità in relazione allo stadio), operabilità anatomica (il minor volume di resezione possibile, atto ad ottenere la radicalità) e operabilità funzionale (capacità respiratoria predetta dopo intervento radicale, che garantisca una sufficiente funzionalità respiratoria).
Nei pazienti con malattia in stadio iniziale non candidabili a trattamento chirurgico per co-morbidità, età o scelta del paziente, la radioterapia con intento radicale rappresenta una valida alternativa terapeutica.
In particolare, la radioterapia stereotassica (SBRT, Stereotactic Body o SABR, Stereotactic Ablative Radiotherapy) consente di ottenere risultati migliori rispetto alla radioterapia convenzionale.
La SBRT si caratterizza per la somministrazione di dosi biologicamente molto elevate in una o poche frazioni, mediante tecniche ad alto gradiente di dose ed è in grado di ottenere percentuali di controllo di malattia elevate, in assenza di tossicità importanti. Diversi studi clinici hanno dimostrato, infatti, una riduzione della progressione locale della malattia (14% vs 33%) a vantaggio del trattamento stereotassico ed un profilo di tossicità favorevole.
Per quanto riguarda la malattia localmente avanzata, la complessità della gestione dei pazienti e l’esigenza di trattamenti multimodali richiedono, a maggior ragione, che tutte le fasi decisionali terapeutiche siano gestite da un gruppo multidisciplinare.
Nella valutazione accurata del paziente con neoplasia in stadio localmente avanzato in un contesto di multidisciplinarietà vanno compresi: valutazione delle condizioni cliniche generali, dell’estensione della malattia (IIIA versus IIIB o IIIC), della presenza di alterazioni molecolari target (stadio IIIB, N3 o IIIC), della funzionalità respiratoria, dei parametri dosimetrici radioterapici in termini di predizione di tossicità polmonare ed esofagea. Va inoltre fornita al paziente una esauriente informazione in merito ai benefici e al profilo di tollerabilità delle diverse opzioni terapeutiche.
Nel caso di malattia localmente avanzata potenzialmente resecabile, le opzioni terapeutiche chirurgiche dipendono dall’entità di estensione del tumore primario, dal livello di interessamento linfonodale e dal grado di risposta ad eventuali terapie di induzione: ad esempio la chemioterapia adiuvante, cioè dopo l’intervento chirurgico per ridurre il rischio di recidiva o la chemioterapia/radio-chemioterapia neo-adiuvante prima dell’intervento chirurgico al fine di ridurre il volume di malattia e soprattutto con l’intento di incrementare la risposta patologica.
In tutti i pazienti con tumore del polmone in stadio avanzato non resecabile chirurgicamente (IIIA/IIIB o IIIC), è indicato un trattamento multimodale, che deve essere sempre valutato e condiviso in ambito multidisciplinare.
In particolare, il trattamento concomitante di chemio-radioterapia a dosi radicali (60 Gy con frazionamento giornaliero standard di 2 Gy) dovrebbe essere preso in considerazione come opzione terapeutica di prima scelta, in relazione ai dati clinici di beneficio in termini di sopravvivenza.
Nei pazienti con volumi tumorali elevati, che non permettono di eseguire un trattamento radioterapico concomitante per un rischio elevato di polmoniti attiniche, è consigliabile un trattamento chemioterapico di induzione seguito dalla radioterapia esclusiva a dosi curative.
L’associazione chemioterapica contribuisce a migliorare il controllo a distanza della malattia e l’utilizzo di chemioterapici dotati di un’azione radiosensibilizzante potenzia l’attività tumoricida della radioterapia, favorendo così il controllo locale della malattia. L’aggiunta della chemioterapia alla radioterapia impatta positivamente sulla sopravvivenza dei pazienti rispetto alla sola radioterapia sia con modalità sequenziale che con quella concomitante.
Negli ultimi anni, inoltre, diversi studi clinici hanno acceso i riflettori sull’immunoterapia, dimostrandone l’efficacia nel migliorare la sopravvivenza libera da malattia e la sopravvivenza globale nei pazienti portatori di carcinoma polmonare non a piccole cellule in stadio localmente avanzato non resecabile. Il farmaco utilizzato è rappresentato dal Durvalumab, anticorpo monoclonale diretto contro PD-L1, il ligando del recettore PD-1. Il suo scopo è quello di stimolare le cellule del sistema immunitario a sviluppare una risposta immunitaria contro le cellule neoplastiche. Il Durvalumab può essere utilizzato nei pazienti il cui tumore abbia una espressione del PD-L1 pari o superiore all’1%.
Il trattamento viene generalmente avviato entro 6 settimane dal termine del trattamento chemio-radioterapico, e proseguito per 12 mesi, in assenza di progressione o di tossicità inaccettabile.

Dott.ssa Agostina De Stefani
Direttore
Dipartimento Oncologico ASST - Bg Ovest - Treviglio

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