Zanica/Padergnone, palazzo Albani/Mascheretti:
Giopì e Margì, sua moglie, nella rappresentazione classica delle maschere bergamasche
Foto Luigi Minuti
Da Zanica, dove abbiamo conosciuto la maschera più recente: il Giopì, saliamo ad Oneta per incontrarvi la maschera bergamasca più antica: Arlecchino, la sua casa ed i luoghi d’incanto percorsi dalla ‘Via Mercatorum’, collegante Bergamo a Venezia.
A metà del Quattrocento, molti bergamaschi, soprattutto delle Valli, emigrarono a Venezia in cerca di fortuna, dando vita a una comunità attaccata alle proprie radici e alla propria identità e manifestando delle caratteristiche comuni e stereotipe che entrarono a far parte della nascente letteratura popolare della laguna. Nacque così la maschera dello Zanni che identificava una figura rozza, sguaiata, tonta, dalla parlata rude, aspra e cadenzata.
Bergamo Piazzale degli Alpini -Scultura raffigurante Arlecchino
Foto Luigi Minuti
Con la Commedia dell’Arte, nel Cinquecento, la letteratura popolare assunse connotati più raffinati e meno volgari e dallo Zanni nacque la maschera di Arlecchino, che incontrò enorme successo anche in Europa. Il borgo di Oneta si trova nel comune di San Giovanni Bianco, in Valle Brembana, ed è qui che la tradizione individua la ‘Casa di Arlecchino’.
Le origini di Oneta risalgono probabilmente al periodo delle invasioni barbariche e la sua storia è legata alla nobile famiglia dei Grataroli i cui componenti vantavano ricchezze e fortune acquisite a Venezia e proprio i Grataroli erano proprietari del palazzo conosciuto come ‘Casa di Arlecchino’, oggi un museo che conserva una selezione di maschere dei personaggi della commedia dell’arte.
Di Arlecchino, maschera di Bergamo, così scrive l’Enciclopedia Treccani: “Arlecchino ha un nome che, per il suo vestito a losanghe colorate, è diventato nella lingua italiana sinonimo di ‘multicolore’. Il suo nome è ripreso, forse, da quello di Hellequin, un diavolo buffone del Medioevo francese, e inizialmente connotava un poveretto, stupido e pronto a menare le mani. Più tardi, le sue maniere si sono ingentilite e il suo vestito ha assunto una nuova eleganza.
Fu un attore italiano, Alberto Ganassa, a scegliersi nella seconda metà del Cinquecento a Parigi il nome d’arte di Harlequin, un nome ripreso da quello di Hellequin, un diavolo che in antiche leggende del Duecento si divertiva a spaventare i sempliciotti. Il personaggio, irriverente, burlone, sempre affamato, per ben due secoli fu popolare presso la corte francese. Da lì cominciò a comparire nelle piazze di tutta Europa, ma le città in cui fu più conosciuto furono Parigi e Venezia.
Arlecchino, in origine, indossava camicia e pantaloni bianchi. A poco a poco, l’abitò subì diverse trasformazioni: la camicia diventò una tunica aderente e cominciò a coprirsi di toppe colorate che, inizialmente, avevano forme irregolari e diverse tra loro. Ma all’inizio del Seicento le toppe cominciarono a prendere una forma regolare e geometrica. Si trasformarono in quadrati, rombi, losanghe, innestandosi su uno sfondo non più bianco, ma colorato: ora il vestito di Arlecchino non aveva più niente di misero, ma appariva addirittura lussuoso. Al fianco completava il costume un corto manganello, strumento delle scene finali in cui Arlecchino regolarmente dava e prendeva botte.
La maschera che ricopriva il volto dell’attore era di cuoio o di cartone cerato. Aveva profonde occhiaie e piccole orbite. Una barba ispida faceva somigliare il viso a quello di uno scimmione. Nonostante il volto coperto, Arlecchino era un re della mimica che si esprimeva soprattutto nel corpo, capace di ingobbirsi o distendersi a piacimento e nella camminata che poteva trasformarsi in salti acrobatici.
La parlata bergamasca con cui si esprimeva poteva essere mutata a piacimento dagli attori per farsi meglio capire o per introdurre espressioni gergali. Il suo linguaggio era il più sboccato tra quelli adoperati dalle maschere della Commedia dell’arte e tale restò, graditissimo al pubblico, per tutto il Seicento. Aveva anche a disposizione un repertorio di canzonacce popolari, ricche di doppi sensi e bisticci di parole oscene. Nel Settecento venne censurato in Francia e gli attori che lo impersonavano dovettero rinunciare alle parole più espressamente sconce. Gli Arlecchini di fiera che, nello stesso secolo, a Venezia, popolavano piazza San Marco continuarono però ad adoperarle tranquillamente con gran diletto del pubblico”.
Luigi Minuti
Storico e amante della nostra “bassa”